lunedì 4 febbraio 2013

Lavoro: tra feudalfascismo e apartheid


L’annientamento dello stato sociale propagandato come riformismo progressista.
Uno dei dati fondamentali, oltre al deficit pubblico, per comprendere la situazione economica reale di un Paese, è il dato concernente il cosiddetto “lavoro autonomo”, ossia, per farla breve, delle partite IVA. Si tratta di un lavoro nel quale di “autonomo” non c’è proprio nulla: ex dipendenti licenziati e subito riassunti dalla stessa impresa come collaboratori coordinati continuativi, collaboratori a progetto e simili. Dipendenti di fatto, ma non per legge, i quali hanno tutti gl’oneri della dipendenza e nessuno dei diritti sanciti dallo Statuto del Lavoratore che è di fatto non solo aggirato ma del tutto destituito, al pari dei diritti sindacali e di tutti gl’altri. Il rapporto di lavoro che viene qui ad istituirsi è un rapporto che – al di là della legge – non è neppure linguisticcamente definibile come tale: infatti uno dei contraenti, il lavoratore, è del tutto vincolato, mentre l’altro, il datore di lavoro, è del tutto sciolto. E’ il tipo di realtà lavorativa che di fatto re istituisce il capitalismo peggiore, quello manchesteriano. Per capirci: il capitalismo al quale Adolf Hitler, tramite la mediazione di gente dello stampo di Firestone, si è ispirato nel “Mein Kampf”. In Italia questa tipologia di lavoro è una delle più massicciamente presenti (26,1%), con una percentuale che in Europa è seconda solo a quella della Grecia (36%). Oltre un quarto dei nostri lavoratori dunque non sono di fatto riconosciuti come tali. Non si tratta inoltre di lavoratori improduttivi o di lavoratori poco qualificati, al contrario, si tratta di quella fetta di mercato del lavoro alla quale è addossata la maggior parte, anche la più qualificata e qualificante del lavoro, ma che è poi esclusa da una giusta mercede. Si tratta di lavoratori chiamati a coprire quella quantità di lavoro cui poi altri percepiscono i compensi, in un meccanismo di “apartheid” dei lavoratori, e di vero e proprio neo feudalesimo. E’ il modello di “lavoro” fatto proprio dalla politica del “Partito della Libertà” (di essere schiavi) e specie dal suo ministro dell’economia, il quale insieme a tutto il partito ha addirittura coniato per esso un nuovo nome che, almeno lessicalmente, tenta di essere appetibile: “Riformismo”. Dunque quella realtà lavorativa che nega la dignità del lavoratore, lo esclude addirittura – per propria colpa, ovviamente – dallo Statuto del Lavoratore, lo espropria della propria personalità e dei propri diritti, lo immette in una realtà sociale che è la ricostituzione di quella feudal-nazi-fascista si chiama ora “Riformismo” ed è cosa buona e giusta. Chiudo con tre brevi considerazioni: a) il sistema così di fatto istituito non è classificabile né come libero, né come mercato; b) esso si caratterizza per l’abbattimento di ogni merito e la selezione dei peggiori e più incapaci e la deselezione dei migliori; c) esso distrugge il valore marginale di quella merce che anche il lavoro alla fine è, e così distrugge il mercato. Ma anche questo, per i riformisti progressisti di casa nostra, è cosa buona e giusta al pari dell’annientamento dello stato sociale: Arbeit macht Frei.
francesco latteri scholten.

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